Rasotto Flotte

Il sogno rosso di Davide

Interviste

24 ore, una gara, mille storie, tanti protagonisti. Tra loro anche Davide Rigon. Il pilota vicentino (è nato a Thiene, il 26 agosto 1986) ha infatti preso il via alla recentissima 24 Ore di Le Mans con Sam Bird e Miguel Molina su una Ferrari 488 GTE ufficiale, con tutto il potenziale per un risultato di prestigio, come dimostra la vittoria in classe GTE Pro dei compagni di team Pier Guidi, Calado e Serra. Purtroppo però il motore della Ferrari numero 71 di Rigon
ha ceduto dopo 140 giri, condannandolo al ritiro. Le Mans è anche questo: una competizione leggendaria, ma anche
crudele perché dopo mesi di preparazione minuziosa basta pochissimo per mandare in fumo i sogni di gloria.
Una gara che Davide ormai conosce bene, così come la 488 GTE con cui ha gareggiato: «È un’auto ben bilanciata e
questo si traduce in un’elevata velocità di percorrenza in curva e in un’ottima gestione delle gomme. In genere questo ci consente di ritardare i pit stop rispetto ai nostri avversari e questo “ci apre” molto la strategia. Forse l’area dove siamo meno forti è la potenza pura, ma non è un limite della Ferrari bensì del BoP con cui corriamo».
Davide ci racconta le sue impressioni al telefono, poco dopo avere concluso una sessione al simulatore della F1 in preparazione del Gran Premio del Canada. La F1, quella vera, ha avuto modo di assaggiarla in pista in più di un’occasione, la prima volta addirittura da minorenne, ma nelle sue parole la soddisfazione per la carriera
che ha saputo costruirsi supera di gran lunga il rimpianto di non essere mai riuscito a prendere il via di un gran premio. Del resto il pilota vicentino non ha mai avuto vita facile: «Avevo 10 anni, mio fratello maggiore ogni tanto girava con i kart così un giorno l’ho provato anch’io e andavo più forte di lui. Da lì ho cominciato a disputare le prime gare, ma fin da subito lottando per mettere insieme il budget minimo necessario, perché la mia famiglia non
poteva finanziarmi più di tanto. Devo molto a Otello Chiesa, che mi ha davvero aiutato ai tempi del karting».
A 12 anni conquista il campionato italiano 70 di mini kart e ben presto passa alle categorie superiori: vince molte gare, anche se il campionato gli sfugge per qualche disavventura di troppo. Tra i risultati da incorniciare, un 6° posto all’Europeo, subito dietro ad un certo Sebastian Vettel. A quel punto il richiamo delle monoposto diventa
irresistibile: vince al debutto in F. Azzurra, l’equivalente della F4 di adesso, e attira così l’attenzione di Giancarlo Minardi.
«In tanti mi hanno aiutato nella mia carriera, ma devo dire che Giancarlo ha avuto un ruolo fondamentale: addirittura mi diede la possibilità di provare la sua F1 subito dopo la vittoria in F. Azzurra, quando avevo solo 17 anni. Il test andò bene: si offrì di seguire la mia carriera e mi sentii davvero onorato. Grazie a lui ho avuto la
possibilità di correre in team competitivi in F. 3000, vincendo, e di farmi conoscere dalla Ferrari».
Già, quel cavallino nero sullo scudetto giallo rimane un simbolo magico. Ma si sente il peso di indossarlo?
«Si avverte la grande aspettativa che c’è in ogni gara, perché la Ferrari ci mette sempre a disposizione delle vetture competitive. Essere un pilota ufficiale Ferrari è un sogno che si è avverato, lo è stato la prima volta che ho potuto guidare in pista una monoposto di Maranello e continua a esserlo in ogni impegno da pilota ufficiale, in gara o anche nei test al simulatore, a supporto del team di F1. Certo, si avverte una grande responsabilità, ma la Ferrari è anche e soprattutto una grande famiglia. La sua storia straordinaria e il suo prestigio sono soprattutto uno stimolo a dare sempre il massimo, a meritarsi di essere un pilota Ferrari».
A proposito di piloti Ferrari, ormai sei abituato a dividere l’abitacolo con dei compagni di squadra: qual è il segreto per far funzionare il rapporto?
«Innanzi tutto va detto che gli abbinamenti vengono definiti dal team sulla base di criteri abbastanza specifici: i piloti di uno stesso equipaggio devono essere per quanto possibile simili sia a livello di stile di guida, per la definizione dell’assetto, sia di statura, per velocizzare il più possibile il cambio di pilota durante le soste. Personalmente ho la fortuna di trovarmi molto bene con i miei compagni Bird e Molina. Il segreto? Credo sia non volere tutto per sé: ad esempio dividersi equamente il tempo alla guida durante le prove libere e lasciare spazio agli altri appena sei a posto con l’auto, rinunciare magari agli ultimi affinamenti per sé per consentire anche agli altri di raggiungere un buon livello di affiatamento con l’auto e la pista. E poi aiutare il compagno se è in difficoltà. Perché non conta chi fa il giro più veloce, ma vincere la gara e per riuscirci dobbiamo andare tutti forte».
Capita anche di dividere l’abitacolo con dei piloti non professionisti, quando con la GT3 corri nella categoria Pro Am. In questo caso com’è il rapporto?
«Premesso che ho sempre trovato anche in questo caso piloti molto veloci, la sfida è comunque accesa e stimolante perché ovviamente si corre per vincere nella propria classe. Piuttosto, a livello di guida occorre adattarsi a guidare un’auto un po’ meno aggressiva, regolata per avere un comportamento più prevedibile e magari con un po’ più carico aerodinamico, per renderla più adatta anche a un pilota meno esperto».
Quest’anno hai sfiorato anche la vittoria alla 24 Ore di Daytona: è davvero così diverso come dicono correre in America?
«In generale si può dire che le gare presentano un livello medio di pericolosità leggermente più elevato, perché si tende ad esempio a ritardare la neutralizzazione della gara in caso di forte pioggia e anche i commissari sono un po’ più permissivi, tanto è vero che il contatto tra le vetture capita più frequentemente. Tutto questo rende le gare forse più spettacolari per il pubblico, mentre per noi piloti a volte è divertente, a volte un po’ meno se magari subisci un contatto mentre sei in testa…».
Il risultato prima di tutto, e non può essere diversamente per un pilota ufficiale Ferrari. Ma ora appunto che pilotare non è più un sogno, ma una professione, cambia l’approccio?
«Sì e no. Sicuramente ci sono una consapevolezza e una responsabilità diverse. Però quando salgo in macchina mi ripeto sempre che il mio obiettivo deve essere innanzi tutto quello di divertirmi, come la prima volta, perché se inizi a considerarlo un lavoro non vai più da nessuna parte. Quando sentirò che per me guidare è solo un lavoro, vorrà dire che è venuto il momento di smettere. Sono consapevole di essere fortunato a fare quello che faccio: certo il sogno della F1 non si è avverato, ma sono felice di far parte del team ed è fantastico essere un pilota Ferrari alla 24 di Le Mans e nel WEC. Però, ripeto, non affronto tutto questo come un lavoro, ma come un divertimento perché è quando ti diverti che esprimi il massimo delle tue potenzialità e del tuo talento».

 

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